Viaggio in India

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Mercato di Mysore

Non so quante volte sia già stata in India, l’ho scordato, ma di sicuro più di dieci. Questa è però la prima volta che arrivo all’aeroporto di Bangalore, nel Karnataka. Ci arrivo dopo quasi ventiquattr’ore di viaggio. Sono partita dal Sud degli Stati Uniti e sono diretta a Mysore (centocinquanta chilometri circa da Bangalore) per praticare Ashtanga yoga, e questa cittadina è il posto migliore per farlo. Qui insegnava, infatti, il grande maestro Pattabhi Jois (1915-2009) e io studierò con la figlia Saraswathi Jois.

Esco dall’area bagagli e sento già quell’inconfondibile odore d’India: un misto di incenso, spezie, umidità.

È l’una di notte.

Il tassista mi aspetta con un cartello con il mio nome in bella vista. È un giovane di appena vent’anni, occhi vispi, sorriso dai denti bianchissimi. Viaggio molto leggera. So che farò tanto (troppo!) shopping. Non credo esista un posto al mondo dove si vendano vestiti e stoffe così colorati come in questo paese. La mia smilza valigia sembra, però, pesare più del giovane che la sta portando.

La macchina è una Toyota in buone condizioni.

Non male, penso.

Prendiamo la NH 275: «La strada a scorrimento veloce», mi spiega il giovane.

Quella che chiama la “strada veloce” ha ora due, ora quattro corsie: alcune chiuse per lavori, altre ancora da asfaltare. Le buche sono tante.

Sorpassiamo camion coloratissimi. Alcuni hanno fiori di loto disegnati sulle fiancate e scritte in diversi alfabeti indiani, sul davanti non manca l’altare, adornato di ghirlande di fiori freschi, dedicato a Lord Ganesha, il Signore del buon auspicio. Nessun induista si metterebbe in viaggio senza aver ricevuto la benedizione della divinità con la testa d’elefante che porta buona sorte a chiunque inizi qualcosa di nuovo, in particolare un viaggio.

Dai finestrini aperti arriva il dolce odore di incenso bruciato negli abitacoli delle macchine per profumare l’ambiente.

La statua di Lord Ganesha

Il mio giovane tassista si è già fatto diversi selfie facendo acrobazie per catturare anche la mia persona, il tutto senza levare il piede dall’acceleratore (andiamo a circa centocinquanta all’ora, o così mi sembra).

Mi racconta di avere una fidanzata che presto sposerà.

«Matrimonio combinato o d’amore?» gli chiedo.

«Entrambi. I nostri genitori hanno fatto tutto, ma noi ci siamo piaciuti subito. Posso dire che sarà un matrimonio d’amore», mi spiega.

Intanto si fa un altro selfie da mandare, questa volta, alla fidanzata.

Sono le due passate. Viaggiamo da più di un’ora, ma Bangalore non è ancora finita. I bei palazzi lasciano piano piano posto a case più modeste, a dimore improvvisate, alcuni quartieri sono enormi slum.

Usciamo finalmente dalla città.

Dallo smartphone del giovane i bip dei messaggi arrivano di continuo. Gli amici apprezzano i selfie, mi dice.

«Non dormono a quest’ora?» gli chiedo.

«No, ma’am, molti sono autisti e lavorano.»

Gli chiedo gentilmente di posare lo smartphone. Mi risponde di sì, ma continua a fissare sorridente il piccolo monitor e a schiacciare il piede sull’acceleratore. La nostra corsa è, per fortuna, spesso rallentata dagli alti dossi di cemento anti velocità piazzati ogni cinquecento metri circa.

Ora capisco perché sono dappertutto, penso.

Ogni mezzo che incontriamo, prima di essere sorpassato, è avvisato da due colpi di clacson. Segue il colpo di risposta. È così che si usa in India: due colpi per dire “guarda che ti sorpasso”, uno per il “vai pure.”

Arriva poi il momento della diretta su Facebook. Il giovane guarda ormai la strada dal monitor. Gira poi lo smartphone per inquadrarmi.

Penso che dopo circa diciassette ore d’aereo, sarebbe il colmo finire spiaccicata su una strada indiana e mi viene da ridere.

Gli dico che deve poggiare il telefono. Se lo farà, gli darò una buona mancia, gli prometto. Lo convinco e tiro un sospiro di sollievo.

Arriverò a Mysore, penso.

È bello guardare l’India dal finestrino: templi dedicati a Ganesha, Hanuman, alla dea Durga, moschee… Uomini avvolti nei loro Dhoti che bevono il chai (tè con latte e spezie) nei numerosi baracchini aperti. Nonostante l’ora, tanti sono già in piedi pronti per andare al lavoro.

Biciclette parcheggiate con carichi enormi fissati sul sellino posteriore. I guidatori di Rickshaw che, in attesa di clienti da trasportare, dormono nei loro mezzi, in posizioni da fachiri.

 

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Il giovane agguanta una bottiglia d’acqua. Si sporge dal finestrino. Ora con una mano tiene il volante, con l’altra si versa il contenuto della bottiglia in testa. Ha sonno, mi dice, e vuole svegliarsi.

«Parlami della tua ragazza», gli chiedo.

Me la fa vedere dallo smartphone. Da sotto il velo spiccano due bellissimi occhi color nocciola. Il giovane è musulmano.

«Si laurea in ingegneria il prossimo anno», mi racconta. Aggiunge però che sarà lui a mantenerla facendo l’autista, un lavoro di prestigio perché lui collabora con diverse agenzie e viaggia per tutta l’India.

«Sono stato in diversi aeroporti non solo in quello di Bangalore», mi spiega, «Sono persino arrivato nel Kerala e nel Tamil Nadu.»

Gli chiedo se la ragazza sia contenta di rinunciare al lavoro.

«I suoi genitori hanno deciso così», mi spiega.

La ragazza è di Bangalore e lui è di Mysore.

«Vivremo a Bangalore, Mysore è troppo piccola, ci si annoia.»

Mysore ha infatti poco meno di settecentocinquantamila abitanti, mentre Bangalore ne ha più di quattro milioni.

Ci mettiamo quasi quattro ore a percorrere i centocinquanta chilometri che separano le due città. Le strade indiane sono così.

Dopo diverse peripezie per trovare il mio hotel, arrivo a destinazione.

Saluto il mio giovane tassista. È felice della mancia e io d’essere finalmente arrivata!

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