Marzo 1992. Sono davvero pochi i locali dove ci si può riparare dal freddo, magari davanti a un caffè o un tè. I ristoranti funzionano ancora alla maniera sovietica: per avere un tavolo bisogna dare una lauta mancia al portiere e sperare che nessun altro sia disposto a pagare di più per quel posto. Bisogna anche fare i conti con il personale pigro e scontroso. Il menù è un librone con antipasti e pietanze dai nomi invitanti, che però il più delle volte il cuoco non può cucinare. I russi m’insegnano che guardare il menù è solo una perdita di tempo; devi chiedere al cameriere, mi dicono, cosa passa la casa.
Di rado i russi vanno al ristorante. Lo fanno solo per festeggiare eventi speciali come una laurea, un fidanzamento, o un matrimonio. E il ristorante si prenota con settimane di anticipo. Per socializzare, la gente preferisce ritrovarsi nelle anguste cucine. In quegli spazi ridotti durante il comunismo si poteva parlare liberamente di politica e di ingiustizie sociali, leggere ad alta voce versi di poeti o brani di scrittori proibiti, lontano dalle orecchie del Kgb.
Le notizie di scandali e intrighi politici si diffondono da una cucina all’altra. La chiamava la Sarafannoe Radio, la radio del grembiule, e cioè la fonte da cui vengono le notizie che il potere non passa. In questi primi anni Novanta la tradizione della cucina è ancora viva, perché sono in pochi quelli che hanno i rubli per potersi permettere di mangiare fuori. In città iniziano a comparire i primi bar e ristoranti privati, ma i menù sono in dollari, pertanto non accessibili al russo medio.
Ho trovato un locale nella centralissima Tverskaya dove per pochi dollari servono tè e caffè decenti, e anche pasticcini freschi, o quasi. Chiamo la mia amica Liliana e, per cambiare, la invito a incontrarci al caffè piuttosto che nella cucina di casa sua.
Liliana ha ventisette anni, è alta, delicata, sottile, con lunghi capelli castani e occhi tanto neri che sembrano sempre truccati con il kajal. Li ha presi dal padre tartaro, mi dice, mentre la carnagione bianca è un’eredità materna. Liliana recita in un teatro “sperimentale” dove allestiscono spettacoli di opere scritte da autori contemporanei. Lo scopo è quello d’illustrare la vita della Russia moderna e anche di staccarsi dai canoni del teatro classico.
Liliana veste secondo la moda del tempo: jeans aderentissimi, tacchi a spillo altissimi e giubbotti in finta pelle cortissimi. Uno stile a cui è fedele anche d’inverno, quando a Mosca bisogna essere degli equilibristi per camminare sul ghiaccio con i tacchi alti. È lei la persona che mi ha fatto conoscere la Mosca dei giovani alternativi. Una città che pulsa, che ha voglia di cambiare. Per questo mi stupisco vedendola insistere per andare al McDonald’s. Strada facendo le spiego il concetto di fast-food e del relativo cibo spazzatura; le dico anche che nei McDonald’s ci entro solo quando viaggio, per usare la toilette. Ma capisco che niente potrà dissuaderla. Liliana non è mai uscita dalla Russia e mangiare in un fast-food — che si ostina a chiamare ristorante — è come comprare un biglietto per un angolo di Occidente. Significa assaporare quello che la Russia cerca disperatamente di raggiungere: il capitalismo.
Il McDonald’s dove stiamo andando è stato aperto nel dicembre del 1990 ed è il primo in Unione Sovietica. Ha rimpiazzato, nella centralissima Piazza Pushkin, il caffè Lira, ed è subito diventato un posto di culto. All’apertura, mi raccontano i russi, a Mosca non si parlava d’altro: in terra sovietica avevano aperto il primo ristorante americano, il più grande d’Europa!
Gli investitori stranieri hanno calcolato che ogni persona (il locale può contenere novecento clienti) debba essere servita in due o tre minuti. Ma la previsione si è rivelata sbagliata. Sin dal primo giorno d’apertura il McDonald’s moscovita ha battuto tutti i record. La fila di clienti è così lunga che finisce nel Guinness dei primati. E invece di tre minuti, la gente ha dovuto aspettare più di tre ore prima di essere servita. Le file chilometriche davanti al McDonalds sono diventate una scena abituale. Non importa che temperatura ci sia, o se in piazza stiano marciando i carri armati: la fila è sempre infinita. Durante il golpe del 1991, quando Gorbachev era prigioniero in Crimea, la gente era in fila per mangiare al McDonald’s, come al solito.
Il locale serve una media di trentamila clienti al giorno, persone che arrivano da tutta l’Unione, curiose di provare cosa sia la cucina americana. Liliana c’è stata solo una volta e ha una gran voglia di ripetere l’esperienza. E così, per assecondarla, mi ritrovo in fila, al freddo. Ci vogliono solo due ore per mangiare un hamburger.
La terapia d’urto inizia già a farsi sentire e sempre meno persone possono permettersi il McDonald’s. Ma anche così stiamo attaccati l’uno all’altro. Cappotto contro cappotto. Pelliccia contro pelliccia. Con il fiato caldo delle persone sul collo. Quelli che al McDonald’s ci sono già stati per ammazzare il tempo raccontano agli altri che esperienza meravigliosa li aspetti.
«È un po’ caro», dice una signora impellicciata. «Ma cosa vuoi, con un servizio del genere!»
«Un servizio di prima classe!» puntualizza qualcuno alle mie spalle.
Quando entro nel locale cerco di guardarlo con gli occhi dei russi. E subito mi rendo conto di quanto il McDonald’s
contrasti con i grigi ristoranti moscoviti. A darci il benvenuto, dietro le casse, ci sono decine di giovani sorridenti, coi capelli ordinati sotto una visiera rossa su cui risalta la M gialla; altri, giovanissimi, con linde tute blu e armati di stracci e strofinacci, puliscono alla svelta ogni traccia di sporco che le nostre scarpe lasciano sul pavimento. Le bandierine rosse e gialle con il simbolo del McDonald’s sventolano dappertutto. Ci sono tre enormi sale: una chiamata europea, l’altra americana e la terza giapponese. E poi le immagini colorate e invitanti del cibo: del Big Mac, del Cheeseburger, delle patatine fritte, dei gelati e degli shake.
«Cosa desidera», «buon appetito», «grazie dell’acquisto»: sono le espressioni con cui viene accolta la clientela. Frasi che in alcun negozio russo vengono mai pronunciate.
«Mi mette allegria», dice Liliana mentre ordina. «Hai visto come sorridono. Anche in Occidente è così, no?»
Come tutti, Liliana conserva la confezione di plastica del Big Mac, il bicchiere della Coca Cola e il cartone delle patatine.
«Come souvenir», mi spiega dopo avermi chiesto se può prendere anche i miei contenitori.
«È il miglior ristorante di Mosca, non trovi?» mi dice mentre usciamo.