Il ritratto politico di Boris Nemtsov

Ogni giornalista ha un file word in cui tiene i suoi contatti: numeri di cellulare di uffici politici, di politologi, di attivisti, delle tante persone intervistate. Veronika, una mia collega a Mosca, chiama scherzosamente i nostri contatti “tesoro”, perché per trovare un numero spesso occorrono ore di telefonate e ricerche su Internet.

La cosa più triste è dover cancellare un numero da questa lista: il numero di una persona che non potrò più raggiungere.

Nel 2003 ho cancellato il cellulare di Sergei Yushenkov, deputato della Duma (il parlamento) ucciso in un giorno d’aprile nel cortile di casa. Ancora non riesco a credere che in parlamento non incontrerò più il suo sorriso; per mesi ho resistito all’istinto di bussare alla porta di quello che era stato il suo ufficio per chiedergli un commento o semplicemente per salutarlo.

È difficile accettare la morte di una persona che si conosce; soprattutto una morte violenta.

Ho provato lo stesso sentimento di rabbia e incredulità quando la collega Anna Politkovskaya è stata uccisa il 7 ottobre del 2006. A ogni conferenza stampa sulla Cecenia o sulla violazione dei diritti umani in Russia cerco la sua chioma bianca e il suo sguardo triste; ancora oggi mi sembra impossibile che Anna non ci sia.

Nel gennaio del 2009 ho detto addio ad altre due persone: il noto avvocato e difensore dei diritti umani Stanislav Markelov e la giovanissima collega (ventisei anni) Anastasia Baburova. È pieno giorno a Mosca quando vengono freddati da un killer lungo una delle tante strade affollate della città. Erano appena usciti da una conferenza stampa.

Sempre nel 2009, a luglio, la bella e dolce giornalista e attivista dei diritti umani Natalya Estemirova viene rapita vicino la sua casa di Grozny, in Cecenia, da quattro uomini armati; verrà uccisa qualche ora più tardi.

Un altro numero da cancellare con le lacrime agli occhi.

Sono negli Stati Uniti il 27 febbraio del 2015 quando mi arriva la chiamata via Skype di un’amica e collega di Mosca. «Hanno ucciso Boris Nemtsov» mi dice. «Gli hanno sparato.» Le chiedo di ripetere quanto ha appena detto perché non riesco a crederci. La mia amica ha la voce tremante e il viso stanco; a Mosca è l’una di notte, e anche lei è stata svegliata dalla telefonata di un collega.

Il politico di opposizione Boris Yefimovich Nemtsov (ero abituata a chiamarlo per nome e patronimico) è stato ucciso dopo le undici di sera con quattro colpi di pistola alla schiena a poche decine di metri dalla Piazza Rossa; stava passeggiando con una giovane donna sul ponte Moskvoretsky. Aveva cinquantacinque anni.

«Sembrava che tutto fosse finito, e invece…» dice la mia amica.

Gli ultimi attivisti uccisi a Mosca erano stati Markelov e Baburova, sei anni prima; ci eravamo illusi che le cose fossero cambiate.

La morte di Boris Yefimovich Nemtsov ci ha fatto tornare in mente i giornalisti uccisi dagli anni Novanta a oggi. Controlliamo le cifre dell’associazione internazionale Committee to Protect Journalists; fa davvero impressione: ci sono i nomi di ottanta colleghi.

Il mio primo soggiorno a Mosca risale al 1992; l’Unione Sovietica è crollata da poche settimane – 25 dicembre 1991 –, e io mi trovo lì per perfezionare la lingua russa e raccogliere materiale per la mia tesi (sono iscritta a lingua e letteratura russa all’Università di Firenze). Quello che ancora non posso sapere è che a Mosca non rimarrò tre mesi – come previsto –, bensì sei. La Mosca del tempo è come un telefilm d’azione, e io non posso perdermi nemmeno una puntata. La Russia mi appassiona così tanto che ci torno l’estate successiva; nel 1994 sono di nuovo a Mosca, questa volta con una borsa di studio che mi permette di frequentare le lezioni all’Università statale e di finire la tesi di laurea.

A Mosca incontro quello che diventerà mio marito, Sergei Vasilyev (ora uno scienziato), e inizio la mia carriera di giornalista lavorando per una radio americana “Radio Free Europe” e per il “The Moscow Times”, un giornale in lingua inglese pubblicato nella capitale; collaboro anche con numerose testate italiane.

Nel 2009, in una bella giornata di primavera, finalmente divento cittadina russa.

La Russia è come una droga: non se ne può fare a meno. Anche ora che vivo negli Stati Uniti (più o meno da tre anni), ho bisogno della mia dose di Russia; amo i russi, perché da nessuna parte ho stretto amicizie tanto profonde come in quel paese.

Un giorno, durante una manifestazione interrotta dagli agenti antisommossa, Boris Yefimovich Nemtsov ha detto che in Russia non si corre il pericolo di annoiarsi. Il lavoro di giornalista in questo Paese è estenuante, le notizie da coprire sono così tante che il tempo non basta mai. Se succede qualcosa, di solito avviene durante il weekend o la sera dopo le otto. Ma Boris Yefimovich ha ragione: questo Paese non conosce la parola noia.

È difficile ignorare Boris Nemtsov. Quando entra in uno spazio lo riempie del suo ampio sorriso e il volto sempre abbronzato, anche durante i lunghi inverni russi. È alto, snello, ben vestito e disponibile a rispondere a qualsiasi domanda, anche a quelle più imbarazzanti.

Così mi appare quando lo incontro nel 2012, in piazza a Mosca, durante una manifestazione contro Vladimir Putin. Gli chiedo che progetti abbia per il futuro, visto che in Russia non sembra esserci posto per i politici indipendenti; lui si mette a ridere. «Non lo so» dice. «Ma sarò una spina al fianco di Putin. È una promessa!»

Prima della sua morte Nemtsov ha criticato l’annessione della Crimea e l’appoggio di Mosca ai separatisti dell’Ucraina dell’est. Ha anche pubblicato dei pamphlet sulle spese pazze sostenute da Putin per organizzare i giochi olimpici invernali del 2014 a Sochi. Ha denunciato la corruzione dilagante, la violazione dei diritti umani. Il suo lavoro però – ampiamente citato dalla stampa occidentale – è ignorato dal russo medio, che ama il machismo del presidente Putin e disprezza i politici come Nemtsov. Sono loro, agli occhi dei russi, i responsabili del declino del Paese dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Laureato in fisica, Nemtsov si presta fin da giovanissimo alla politica. Nel 1990 è eletto nel Congresso dei deputati del popolo dell’Unione sovietica (il massimo organo legislativo); lo stesso anno viene scelto dal presidente Boris Yeltsin per guidare la regione di Nizhny Novgorod, incarico confermato con le elezioni del 1995. Convinto sostenitore del programma di riforme del presidente Yeltsin, Nemtsov è nominato vicepremier nel 1997. È parte, cioè, di quel gruppo di giovani riformatori che abbraccia l’economia di mercato e parla di democrazia. Energico, carismatico, Nemtsov ha la stoffa di un leader; perciò, non mi stupisco quando Yeltsin, a un certo punto, lo indica come il suo delfino.

Ma quei giovani chiamati in Russia “democratici” sono amati solo in Occidente.

Il passaggio dal comunismo al capitalismo, iniziato negli anni Novanta, è stato molto doloroso per la gente. I russi ricordano con orrore il periodo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando i loro risparmi si sono volatilizzati a causa dell’inflazione. È in quegli anni che la Russia è diventata un paese fuori dalla portata della maggior parte dei suoi abitanti. Quello che era uno stipendio decente in tempo sovietico, poche settimane dopo il crollo dell’Unione (gennaio 1992) è diventato appena sufficiente per comprare un chilo di formaggio.

L’industria del Paese è in declino e viene svenduta per un decimo del suo valore a poche persone ben ammanicate col potere che i russi chiamano oligarchi. I banditi sono i veri padroni del Paese. L’aspettativa di vita crolla drasticamente.

In mezzo a tanta povertà gli oligarchi ostentano la loro ricchezza.

I giovani riformatori dell’entourage di Yeltsin, che hanno ideato il piano per guidare il Paese verso l’economia di mercato e la democrazia, sono additati come i responsabili di questo declino.

I russi, in modo dispregiativo, li chiamano “democratici”; per molti la parola “democrazia” è sinonimo di povertà, corruzione, caos politico, criminalità: tutti fenomeni che hanno caratterizzato gli anni Novanta.

Il sogno dei giovani riformatori finisce il 17 agosto del 1998, quando il premier Sergei Kirienko dichiara la bancarotta. Yeltsin è malato, alcolizzato; il potere è in mano agli oligarchi, che hanno letteralmente privatizzato lo Stato; il popolo è stanco e sogna un leader forte. La crisi apre a Putin la strada della presidenza. Nemtsov capisce di non avere più chance, e quando Yeltsin nomina Putin suo delfino, approva la decisione chiamandolo uno dei candidati più degni. Ma non riuscirà mai a adattarsi al nuovo regime politico.

Nel 2003 il suo partito degli affaristi, Unione delle forze di destra (SPS), cerca di rimanere alla Duma. Sono le prime elezioni parlamentari che in Russia si svolgono sotto Putin (salito al potere nel 2000). SPS si presenta come un partito d’opposizione, ma accanto a Nemtsov e a all’altra leader del partito, Irina Khakamada, in cima alla lista di SPS c’è il nome di Anatoly Chubais, il Ministro della privatizzazione del governo Yeltsin (che è in quel momento il capo del monopolio elettrico Rao Ues).

Chubais è la persona che i russi hanno soprannominato “il padre degli oligarchi”, perché grazie a lui le immense ricchezze dell’Unione Sovietica sono finite nelle mani di pochi privilegiati e non del popolo, come Yeltsin e i “democratici” avevano promesso all’inizio delle riforme. Chubais è tuttora una delle persone più invise in Russia.

Copro la politica interna russa per il “The Moscow Times”, e una delle mie fonti in SPS mi racconta che Chubais ha avuto la benedizione di Putin per partecipare alle elezioni. Durante la campagna elettorale Nemtsov mi assicura che il partito farà opposizione dura a Putin, ma elude la domanda quando gli faccio notare che in campagna elettorale SPS ha criticato il governo senza fare il nome di Vladimir Putin.

Ricordo i congressi elettorali di SPS con banchetti di lusso a base di caviale, beluga, salmone e vini d’importazione e poi lo spot elettorale, uno dei più fallimentari che abbia mai visto durante il mio lavoro in Russia: Nemtsov, Khakamada e Chubais elegantissimi, muniti di laptop, sono a bordo di un lussuoso jet privato e discutono il programma di riforme del Paese.

Ricordo l’indignazione dei tanti russi che ho intervistato, soprattutto degli anziani, che vivono con pensioni misere in una città diventata tra le più care d’Europa, e che imprecano contro l’arroganza dell’uomo dalla faccia abbronzata e di quello con i capelli rossi (Chubais).

Mi rendo conto che Nemtsov ha perso il contatto con la realtà, perché vive in un mondo diverso, mille miglia lontano da quello del popolo.

Quando chiedo a Nemtsov quale sia il suo elettore ideale, perché per mettere Chubais in cima alla lista ci vuole coraggio, lui mi dice che SPS è un partito di destra e difende gli interessi del business. Ma molti insider mi confessano che Nemtsov non è amato al Cremlino e Chubais è la persona che può mediare con il potere per il partito.

SPS e il partito socialdemocratico Yabloko (l’unico partito indipendente dal Cremlino) non riescono a superare la soglia di sbarramento fissata al 5%. Il Cremlino ha deciso di liberarsi di ogni voce d’opposizione, anche minima.

Le elezioni del 2003 sono definite dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) come «lontane da ogni criterio democratico». Per tutta risposta il Cremlino nega a questa organizzazione il permesso di inviare una sua missione per monitorare le elezioni del 2007.

Dopo la batosta del 2003, Nemtsov inizia a creare diversi partiti di opposizione e movimenti, ma nonostante il carisma e la notorietà (soprattutto in Occidente), non riesce a diventare un politico popolare in Russia.

Nel 2007 prova invano a rientrare alla Duma (una missione impossibile nella Russia di Putin, che per assicurarsi il completo controllo del parlamento ha approvato una serie di leggi che limitano le libertà civili e ostacolano la nascita di qualsiasi partito politico indipendente).

Nel 2009 Nemtsov cerca di diventare il sindaco di Sochi, ma prende poco più del 13% del voto.

È in questo periodo che Boris Yefimovich inizia a trasformarsi in oppositore del regime di Putin. Si unisce al movimento d’opposizione Solidarnost e in seguito diventa uno dei leader del partito RPRParnas.

A Mosca e San Pietroburgo, alla vigilia delle parlamentari del dicembre 2011, le opposizioni organizzano uno stretto monitoraggio per impedire che il partito del Cremlino Russia Unita vinca grazie ai brogli. Nemtsov è attivo nelle piazze, su Internet. «Il potere di Putin,» mi dice quando lo incontro «sta per sgretolarsi. La gente è stanca.»

Nonostante i controlli, i brogli sono senza precedenti e così anche le pressioni contro quelli che lottano per avere elezioni giuste. Russia Unita riceve il 50% del voto, un risultato ben lontano dal 64% di 4 anni prima; molti analisti calcolano che in caso di elezioni oneste il partito avrebbe ricevuto attorno al 20%.

A Mosca iniziano le manifestazioni di protesta per chiedere l’abolizione del voto. Il potere di Putin trema; il panico che regna al Cremlino si manifesta in migliaia di agenti delle forze speciali Omon e di poliziotti che pattugliano le strade della capitale, e nelle decine di mezzi militari pieni di soldati che stazionano in periferia.

Non ho mai visto tanta polizia a Mosca, e nemmeno così tanti manifestanti. Sono abituata a manifestazioni di poche centinaia di persone al massimo (giornalisti e organizzatori compresi), mentre ora le strade sono piene di migliaia di manifestanti.

Nemtsov è sempre a parlare sui palchi allestiti nelle piazze, ma il suo carisma scompare a confronto del più giovane (diciassette anni in meno) Aleksei Navalny, il principale esponente dell’opposizione, il vero leader, capace come nessun altro di stimolare la folla.

Le proteste continuano fino alle elezioni presidenziali, ciononostante il Cremlino non cambia metodo: piazza i soliti candidati fantoccio a sfidare Putin, assicurandogli così la vittoria.

Quelle proteste che sembravano destinate a continuare e a scalfire il regime finiscono presto. Migliaia di manifestanti sono arrestati, il Cremlino approva nuove leggi che rendono ancora più difficile ogni forma di protesta. Anche i più coraggiosi si fanno da parte. Se prima rischiavano qualche settimana in prigione per violazione dell’ordine pubblico, ora rischiano ingenti multe che metterebbero in ginocchio la loro famiglia. In pochi se la sentono di rischiare.

«Tre anni fa eravamo un’opposizione, ora siamo dissidenti» afferma Nemtsov al “Financial Times” qualche giorno prima di morire. “Dissidenti” è il termine azzeccato.

Il potere usa la sua macchina repressiva per distruggere gli oppositori più tenaci. Aleksei Navalny e suo fratello Oleg, ad esempio, sono stati accusati di aver frodato due compagnie per una somma di circa 400.000.00 euro. Oleg, che non è mai stato un attivista politico, è stato condannato a tre anni e mezzo di prigione, mentre Navalny a tre anni e mezzo con la condizionale. Navalny chiama queste accuse «politiche», fabbricate per tenerlo lontano dalle piazze.

Nonostante questo clima Nemtsov non si arrende. Lavora a un altro pamphlet per dimostrare che la Russia è coinvolta nella guerra in Ucraina e organizza una marcia di protesta per condannare questo coinvolgimento. La chiama la “marcia di primavera”, e fissa la data per il primo marzo.

Alla radio “Ekho Moskvy”, l’unica radio indipendente del Paese, poco prima di morire concede un’intervista in cui protesta contro le autorità che gli hanno negato il permesso di marciare in centro. La sua voce è squillante, piena di ottimismo.

Sono le sue ultime parole pubbliche.

La marcia si terrà lo stesso, ma sarà una marcia silenziosa, di protesta contro il suo assassinio.

 

È passata appena una settimana da quando Boris Yefimovich è stato ucciso e gli inquirenti annunciano di aver arrestato i responsabili del suo omicidio: sono cinque ceceni (un sesto uomo si fa esplodere con una granata prima dell’arresto), tutti parenti.

Uno di loro, Zaur Dadayev, durante gli interrogatori confessa di aver ucciso Nemtsov, ma qualche giorno dopo ritratta. Il suo movente sarebbero le parole pronunciate da Nemtsov a sostegno delle vignette anti-Islam pubblicate dal giornale satirico francese “Charlie Hebdo”. Parole che, secondo Dadayev, offendono l’Islam.

Boris Yefimovich, in realtà, ha solo condannato il brutale omicidio dei dodici giornalisti di “Charlie Hebdo” e non ha detto niente di offensivo contro l’Islam o i ceceni. Non era nel suo carattere. È sempre stato attento a non offendere i musulmani, e ha sempre difeso i ceceni. Nel 1996 ha raccolto un milione di firme contro il primo conflitto in Cecenia, iniziato nel 1994 da Yeltsin, e ricordo che ha sempre criticato la seconda guerra cecena iniziata da Putin nel 1999.

Dadayev è stato vicecomandante del battaglione Sever (Nord), della polizia cecena che risponde al Ministero degli interni russi, ma in realtà è il battaglione privato del presidente ceceno Ramzan Kadyrov.

Gli uomini di questo battaglione ufficialmente combattono contro gli estremisti islamici, ma è grazie a loro che Kadyrov è riuscito a imporre il suo potere e a fare della Cecenia il suo feudo personale. Il Cremlino chiude gli occhi perché Kadyrov è leale a Putin e pertanto poco importano le violazioni dei diritti umani e l’imposizione della legge islamica. Anzi qualche giorno dopo l’omicidio di Nemtsov Kadyrov è a Mosca per ricevere un ordine per «i suoi successi professionali» e «gli anni di diligente lavoro».

In un post su Instagram (il mezzo di comunicazione preferito del presidente ceceno) Kadyrov chiama Dadayev «un buon credente.» E aggiunge: «Lui, come tutti i musulmani, è scioccato dalle attività di Charlie e dai commenti delle vignette.»

E proprio contro “Charlie Hebdo”, a gennaio, Kadyrov organizza a Grozny una manifestazione di centinaia di persone per condannare le vignette del giornale satirico francese.

Il movente di Dadayev però convince pochi a Mosca.

Tutta la vicenda sembra un déjà vu. Anche per l’omicidio di Anna Politkovskaya gli inquirenti arrestano cinque uomini (poi tutti condannati): quattro ceceni, membri della stessa famiglia, e un russo. Ma sono gli esecutori dell’omicidio. Il mandante rimane tuttora ignoto.

E così si teme che lo stesso possa succedere per l’omicidio di Nemtsov.

La cosa certa è che il clima che regna nel Paese negli ultimi anni permette a fatti come questo di accadere. Dopo l’annessione della Crimea e la guerra nell’est dell’Ucraina, in Russia è iniziata una campagna d’odio senza precedenti. Se prima la Tv mostrava gli oppositori di Putin come marginali, opportunisti, idioti, ora sono stati trasformati in nemici del popolo.

Dopo essersi impossessato della Crimea, Putin ha parlato di una “quinta colonna” attiva di agenti stranieri che vogliono destabilizzare il paese. Li chiama “traditori” che ambiscono a seminare discordia. Non fa nomi, ma si capisce che parla di persone come Navalny e Nemtsov. Inizia una forte campagna denigratoria in televisione e su Internet contro gli oppositori del regime. Nelle strade della capitale appaiono poster giganti con il ritratto di Nemtsov e altri quattro oppositori. «La quinta colonna. Stranieri in mezzo a noi» recita il poster.

Durante le manifestazioni di strada a Mosca nel 2011/12 Nemtsov dice che Putin non ha scelta: deve ascoltare le proteste del popolo e allentare la morsa autoritaria.

Putin invece risale al potere più arrabbiato e intollerante di prima. E riesce a convincere i cittadini che i nemici del paese sono dappertutto.

Se durante il primo e secondo mandato di Putin e l’interregno di Medvedev c’era ancora un po’ di spazio per la discussione politica, ora chi ha un’opinione diversa è un nemico della Russia.

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